sabato 17 marzo 2012

Perché penso a papà

"Se ai mortali fosse possibile scegliere tutto da sé, 
sceglierebbero il dì del ritorno del padre"
OMERO, Odissea XVI, 148-149

Questi versi dell'Odissea - che ho riscoperto nella prefazione del romanzo "Cose che nessuno sa" di Alessandro D'Avenia - mi sono tornati in mente lo scorso venerdì, mentre in classe svolgevamo dei lavori in occasione della Festa del papà per il lunedì successivo. Le cose sono andate più o meno così: ho pensato di far leggere e studiare agli alunni la poesia di Camillo Sbarbaro Padre, se anche tu non fossi il mio; il testo della poesia è meraviglioso, splendido nella sua semplicità, che scorre con decasillabi ed endecasillabi sciolti oscillando continuamente tra i ritmi della prosa e della poesia. Per prima cosa ho letto il testo, senza interruzioni, per fare anzitutto "ascoltare" la poesia nella sua musicalità. Poi ho spiegato brevemente i versi per rendere comprensibili particolari e sfumature che sarebbero potuti sfuggire. Per finire ho riletto di nuovo la poesia. In classe c'era silenzio di tomba, più silenzio del solito. Forse la situazione stessa lo imponeva: si parlava del "padre".
Dopo qualche intervento degli alunni ho assegnato un'attività, prendendo ispirazione da "Lettera al padre" di F. Kafka: 
- Ok ragazzi, ora mettetevi comodi, liberate il cervello, faremo un testo scritto sul quaderno. Il titolo è: "Lettera al mio papà" 

Era oppurtuno utilizzare la parola "papà" al posto di "padre", perché la prima evoca una dimensione di tenerezza e di intimità che nella seconda manca o si attenua di molto.
I ragazzi iniziano a scrivere, prima la brutta copia poi la bella copia, in quel silenzio quasi sacrale in cui la classe si trovava dall'inizio dell'attività. Nel frattempo io prendevo degli appunti sulla mia agenda e sul registro, senza alzare quasi mai la testa.

Ciò che è accaduto qualche minuto dopo mi ha lasciato di sasso: sento singhiozzare. Alzo la testa e vedo Giampiero piangere, con gli occhi rossi mentre cerca nelle tasche del suo grembiule un fazzoletto di carta per asciugarsi le lacrime. A guardare bene, però, anche Marika, Ludovica, Sara, Francesca ed Eleonora stanno piangendo (non stupisca l'elenco di quasi sole alunne, sono 15 in una classe di 18!).

Chiedo il perché di quello sfogo, dopo aver capito che non vi erano altre spiegazioni oltre ad un sentimento innocente di profonda commozione. Ho smesso di scrivere ed ho iniziato a parlare con loro, guardandoli negli occhi con l'aria di chi vuol capire meglio qualcosa che ha già capito abbastanza.

- Perché piangete così? Che vi prende?

- Perché penso a papà - mi risponde Francesca

Ma certo, quale altra spiegazione potrei avere da bambini di 10 anni? Che mi facciano una dissertazione sulla figura paterna in letteratura e in filosofia? Oppure che mi chiamino in causa le teorie della psicanalisi sull'argomento? Certo che no, e la risposta "perché penso a papà" è già tutto un mondo, mi basta e mi avanza. Grazie Francesca, grazie a te, ai tuoi compagni di classe e ai vostri benedetti 10 anni di età.

"Perché penso a papà" è una risposta che racchiude in sé l'umano, è uno di quegli "universali" che attraversano la storia del mondo di ogni tempo e di ogni angolo della Terra. E' la storia eterna di padri e di figli, di assenze e ricerche, di radici e ali, di navi e mari e tempeste ... di Ulisse e Telemaco.

I bambini pensano al padre, i ragazzi lo stesso, tutti gli uomini lo fanno. In ognuno c'è un ricorrente pensiero rivolto alla paternità, quasi un anelito. L'etimologia della parola padre è "recinto": il papà è colui che ci dà il senso del limite, che ci argina e ci indirizza in un mare di molteplicità e alternative in cui dobbiamo navigare. E' il senso dell'argine entro cui germoglia la nostra creatività e la nostra appartenenza al mondo. E' la nostra identità e il paragone per la consapevolezza della nostra alterità.

Il bambino riconosce nel papà quell'autorità buona che gli dà un ordine, che gli traccia un solco. E' un'autorità sana che ci aiuta a collocarci, a prendere posto sugli scranni del mondo. Il principio di autorità non è una forma di potere da abbattere a prescindere; nel caso della paternità è soprattutto accettare che ci sia qualcuno che si prenda cura di noi, che ci indichi una direzione.

Riconoscere questa autorità/autorevolezza, ridarle un posto nel nostro mondo, è un'ottima alternativa e un valido antidoto all' "Epoca delle passioni tristi" che sembra essersi impossessata del nostro quotidiano (Miguel Benasayag-Gérard Schmit). La tristezza sta nel credere - fino al punto di sembrarne convinti - di poter vivere senza il padre. Come non si può vivere né morire senza una madre - direbbe Hermann Hesse in Narciso e Boccadoro - allo stesso modo non si può vivere né morire senza un padre.
Non sorprende affatto che nel cuore degli uomini le assenze più difficili da accettare sono proprio quelle del padre e della madre. E per capirlo non serve sfogliare le pagine dei manuali di psicologia evolutiva, basta guardare gli occhi commossi di bambini, ragazzi e uomini di ogni età quando si parla di padre o di madre. Sarebbe utile, di tanto in tanto, fermarci un attimo, prendere matite e colori e provare a disegnare gli occhi, il volto del nostro papà e della nostra mamma.

Chissà che una riappropriazione di questa figura non apra poi il cuore verso un Padre che è padre dei papà, che è insieme padre, madre, figlio. 

Lasciamo ai ragazzi il diritto di reclamare il padre, di pensarlo, viverlo, cercarlo quando non c'è. Facciamo in modo che in ogni ambito educativo, a partire dalla scuola, non si perda il contatto con il nostro "recinto".  I ragazzi hanno il diritto di essere "Telemaco" ed è un errore da parte degli educatori negare questa necessità antropologica: forniamo loro, invece, una buona nave con corde robuste, indichiamo la direzione in cui c'è il mare e, se ci viene chiesto, arruoliamoci nel loro equipaggio, anche come mozzi, non importa. Da qualche parte, è certo, troveranno Ulisse. Oppure Ulisse tornerà da sé.

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