sabato 10 febbraio 2018

I licei classisti e l'ipocrisia del politically correct

Una premessa: insegno in un professionale e voglio un gran bene ai miei studenti (spero e credo che loro ne vogliano a me): voglio bene allo studente cinese, a quello brasiliano, a quelli (numerosissimi) con problemi di apprendimento e svantaggio sociale, socio-economico e culturale. Pur commettendo molti errori mi sforzo ogni giorno di fare al meglio il mio lavoro, perché è un diritto dei miei studenti, perché lo meritano e perché forse fa parte della mia indole. Nulla di particolare, dunque, sono uno tra tanti, ma considero importante questo incipit per quello che dirò appresso.

C'è una costante nel politically correct, e cioè il fatto che alcune cose tutti le pensano (non c'è ancora il divieto di pensare per fortuna), ma nessuno le può dire.
Una deroga a questo politically correct ha generato lo scandalo sollevato dalla campagna di alcuni licei che, tra i loro slogan promozionali, affermano di non avere alunni disabili o stranieri che rallentano gli apprendimenti. 
Ciò che a me stupisce - e sono consapevole di essere una voce fuori dal coro, ma non l'unica - non è il contenuto dello slogan, ma l'ingenuità di coloro lo hanno detto con leggerezza e che si sono prestati alla gogna mediatica.
Non hanno rispettato il politically correct, questa la loro colpa. Hanno cioè detto cose che si possono solo pensare, ma non dire. Mai.

Ma se senti decine di genitori affermare "preferisco che mio figlio sia bocciato al liceo che promosso in un professionale" vuol dire che è lecito sospettare che molti italiani sono classisti (se di classismo si tratta). Ed è classista anche chi dice di non esserlo (compresi alcuni insegnanti che lavorano in un professionale, si indignano ed iscrivono il figlio al liceo); sempre perché c'è un abisso tra ciò che diciamo in pubblico e ciò che pensiamo nell'intimo: la prima delle due cose serve a garantirci l'accettazione sociale, la seconda invece determina di fatto,e notevolmente, le nostre azioni quotidiane, più o meno importanti.

I dati recentemente pubblicati sono chiari: gli istituti professionali hanno avuto un ulteriore calo di iscrizioni, dal 15 al 14%Un po' meglio vanno i tecnici, ma i licei riconfermano e persino superano il boom di iscritti con percentuali da capogiro. Eh sì: "preferisco che mio figlio sia bocciato al liceo che promosso in un professionale". E perché? Vogliamo elencare le ragioni? 
Ma certo, accontentiamoci della motivazione "da bacheca di Facebook" per cui gli italiani sono classisti. Tutti alto borghesi sprezzanti verso il popolino, pare. 
E invece no, non è così. E ora abbandono l'ironia. Non è così perché esiste da sempre una scuola che marcia a livelli altissimi ed un'altra che zoppica, perché ci sono istituti dove le cose funzionano e altri dove non funzionano. Uscendo da alcune scuole ci si laurea in percentuali altissime; da altre solo 14 persone su 100 trovano un impiego stabile: cosa ne è degli altri 86?

Ma ancora a monte ci sono altre premesse:
1. Il genitore consapevole (e questo aggettivo vuol dire moltissimo) vuole per il figlio il massimo, in termini di educazione e istruzione. Non è un reato pretendere questo, e scagli la prima pietra il genitore che non è d'accordo.
2. E' lecito scegliere il contesto in cui questo obiettivo viene raggiunto nel modo migliore possibile (in termini di qualità, tempi e modalità). 

3. Di fatto, sebbene la segregazione sia più attenuata nella scuola primaria e secondaria di I grado, al momento della scelta della scuola superiore si accentua. Ed è un dato di fatto che l'alunno con difficoltà di apprendimento sceglierà scuole in cui non si studia il greco, il latino, la filosofia oltre che la matematica e fisica propedeutiche agli studi universitari. Gli immigrati di prima generazione, il cui percorso scolastico è spesso inficiato da uno svantaggio linguistico iniziale notevole, avranno avuto un percorso complicato e spesso, purtroppo, di non eccellenza (ci sono per fortuna le dovute eccezioni, e lo stesso discorso fortunatamente non vale per gli stranieri nati in Italia in un contesto già italianofono). (Un articolo della Giunti ci aiuta a chiarire meglio ciò di cui parliamo rispetto alla segregazione etnica).

Tutto questo ci riporta al discorso dell'inclusione, della scuola delle pari opportunità e della scuola che deve garantire equità ed eccellenza; ci richiama alla mente le metodologie didattiche ed organizzative che spesso sono del tutto inadeguate, insieme a strutture fatiscenti, scarsità di risorse ... e così via. Ma il dato di fatto è - ci piaccia o no - che esistono classi in cui in un modo o nell'altro avviene una segregazione (non solo etnica) e altre in cui abbondano le eccellenze e gli studenti volenterosi, maggiormente dediti al sacrificio e forse con una maggiore attitudine all'apprendimento sistematico.
Le classi differenziali sono davvero sparite?

Dunque, anziché scandalizzarci di chi "fotografa" verbalmente il dato di fatto (fermo restando che palesarlo sembra di cattivo gusto), dovremmo invece interrogarci di più su ciò che è stato fatto, se i modelli di inclusione funzionano davvero, se questo modo di pensare l'inclusione è l'unico possibile e se la scuola italiana fornisce davvero a tutti gli studenti la tutela dell'equità e... dell'eccellenza! Oppure anche se le cose non possano essere diverse da come sono, perché così va il mondo (è un'ipotesi anche questa e non spetta a me trarre delle conclusioni definitive e oggettive).

In ultimo proporrei alle agenzie di rilevazioni statistiche un sondaggio, anzi due: il primo dovrebbe verificare a quale scuola superiore i docenti delle scuole italiane iscrivono i loro figli; il secondo dove iscrivono i figli i docenti degli istituti professionali. Andrebbe anche verificato quanti tra questi docenti si sono poi indignati per i "licei classici classisti", ma credo che questo non si possa fare. Come credo sia impossibile stabilire davvero le motivazioni che li portano a scegliere alcune scuole e non altre, poiché ci sono cose che si possono solo pensare e non dire, altre che si dicono senza pensarle. Ma per fortuna si possono immaginare.




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