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giovedì 31 dicembre 2020

Si teme la morte perché la si confonde con l’agonia - Emanuele Severino

 Si teme la morte perché la si confonde con l’agonia, con la sofferenza che sono fenomeni della vita. Ma dopo l’agonia che cosa c’è? Ecco dunque il problema della morte. La nostra cultura concepisce la morte come annientamento. Ma è davvero così? O la morte, piuttosto, è un proseguire infinito oltre il dolore che caratterizza la nostra vita? Quando mi chiedono se ho paura della morte o perché la guardo con serenità rispondo che l’Occidente crede che morire sia andare verso il nulla. Dobbiamo capire che questo che crediamo un andare nel nulla è, in verità, lo scomparire degli Eterni. Quando la legna diventa cenere, crediamo si annienti la legna e nasca la cenere. Ma se sappiamo guardare a fondo, vediamo lo scomparire progressivo di singoli eventi (la legna che brucia, poi che brucia un po’ meno, la cenere che compare…): la morte ci appare nella forma dell’agonia, morire è il progressivo scomparire degli Eterni che escono dal cerchio dell’apparire. Ma l’uomo è destinato alla Gioia.

Ecco il tema della Gioia. Gioia, il superamento di tutte le contraddizioni che attraversano la nostra vita. Viviamo nella contraddizione, ma esiste un luogo in cui ogni contraddizione è oltrepassata? E noi, che cosa siamo, rispetto alla totalità di quel luogo? Quel luogo non è, forse, ciò che realmente siamo? La risposta è “sì, siamo quel luogo”. Un luogo che chiamo Gioia. Gioia non è la felicità, che è sempre una volontà soddisfatta. La Gioia, invece, è infinitamente più alta. Non è volontà, ma eliminazione di ogni contraddizione.

venerdì 2 novembre 2018

"I morti ci aspettano". Riflessioni meravigliose del filosofo Emanuele Severino sul senso della morte - Educare Narrando

Segue questo meraviglioso testo sulla morte un breve intervento chiarificatore (si spera).

"Insieme a tutti i miei morti - e insieme a tutti i morti - mi aspetta (la moglie defunta, ndr). Ora sono degli Dèi. Per ora stanno fermi nella luce. Come le stelle fisse nel cielo.
Poi, quando la vicenda terrena dell'uomo sarà giunta al proprio compimento, sarà necessario che ognuno faccia esperienza di tutte le esperienze altrui e che in ognuno appaia la Gioia infinita che ognuno è nel profondo. Essa oltrepassa ogni dolore sperimentato dall'uomo.
Siamo desinati ad una Gioia infinitamente più intensa di quella che le religioni e le sapienze di questo mondo promettono. Nel Requiem cristiano si chiede - si chiede! - che nei morti risplenda la luce perpetua, si chiede che riposino in pace. Ma questo è inevitabile, è necessario che in loro questa luce risplenda e illumini qualcosa di infinitamente più alto di Dio. Non è chiesta: è il nostro destino. E non riposeremo "in pace". In pace riposano i cadaveri. Lasciandosi alle spalle il dolore e la morte, quella luce mostrerà all'infinito una gioia sempre più infinita. 
C'è bisogno di avvertire che, di quanto mi limito ad asserire, i miei scritti mostrano la necessità e il significato autentico di questa parola e della stessa "autenticità"?"

E. Severino, Il mio ricordo degli eterni (AUTOBIOGRAFIA), Rizzoli, Milano, 2011 




Gli uomini non muoiono tutti allo stesso modo. E difatti gli uomini, nelle varie epoche, non sono morti allo stesso modo, poiché si muore a seconda di come la morte viene pensata, intesa, considerata. Per gli uomini preistorici era per lo più un viaggio, una migrazione verso un altrove immaginato. Dai Greci in poi però - con la comparsa per la prima volta nel mondo del pensiero filosofico che, per sua natura, aspira all'incontrovertibile - cambia radicalmente il modo di intendere la morte: i Greci, evocando il nulla, considerano la morte come l'annientarsi di ciò che è. Si tratta del fondamento del nichilismo, che permea tutto il pensiero dell'Occidente, cristianesimo compreso (anche se non si direbbe). Il Pensiero a questo punto inizia la sua battaglia alla ricerca di un rimedio, di un riparo o una soluzione che dir si voglia, che risolva l'angoscia profonda che viene da questo nichilismo originario e radicale: l'annientarsi di tutto ciò che muore, appunto. 

Emanuele Severino ribalta questa prospettiva. La considera follia, poiché non è possibile che ciò che è non sia, come non è possibile che ciò che non è sia.
Giunge, al termine di una meravigliosa parabola filosofica - con la strutturazione di un pensiero rigoroso e finora non confutato - alla formulazione dell'eternità degli essenti: ogni cosa che è è eterna. Il bicchiere sul tavolo, le foglie, i pensieri, i movimenti che compiamo, le nostre emozioni, il gesto dello strizzare gli occhi e una carezza ai nostri figli. Tutto è eterno.
E la morte allora? La morte non è annientamento, ma è l'uscita dal cerchio dell'apparire.



Certo, questi concetti suonano strani, soprattutto perché così formulati sembrano una "fede"; e invece il filosofo bresciano mostra la necessità che le cose stiano così, prescindendo dalla volontà di un Dio dispensatore di eternità, al rispettare, da parte del mortale, di determinate condizioni (i Comandamenti, ad esempio). L'eternità appartiene a tutti, al "santo" e al più efferato dei criminali.
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