mercoledì 7 ottobre 2015

Nessuno è immortale. Tanto meno gli adolescenti. E qualcuno glielo deve insegnare - Di Alberto Pellai

La paura della morte, paradossalmente, porta spesso a sfidare la fragilità terrena, e quindi a sfidare la stessa morte, a stuzzicarla, a giocare con la propria vita fino a spingersi a volte - e tragicamente - oltre il limite.
La riflessione che segue è del prof. Alberto Pellai.

Un ragazzo morto in discoteca per una pastiglia di ecstasy.
Un altro si trova in gravissime condizioni per aver cercato di scendere da un treno mentre il treno era in corsa, forzando le porte del convoglio su cui viaggiava.
Un giovane, con un tasso alcolemico quattro volte superiore a quanto consentito, prende contromano una tangenziale e provoca un incidente con due morti.
La cronaca degli ultimi giorni è piena di notizie che come adulto mi spaventano. Atti inconsulti, all’inseguimento di emozioni forti, che esitano in tragedie.

Un aspetto che di frequente connota l’adolescenza, un tempo della vita in cui tutti hanno voglia di sentirsi immortali, di sfidare la fragilità terrena, di dotarsi di un’onnipotenza che faccia da scudo ad una consapevolezza ben più profonda e che vive in ciascuno dei nostri figli quando crescono: ovvero la paura della morte

Non ho incontrato nemmeno un ragazzo che non ci avesse pensato alla sua fragilità, alla sua vulnerabilità, al suo senso di finitezza. L’altro giorno parlavo anche con mio figlio, quasi quindicenne, delle cose che lo spaventano. Malattia e morte erano nella sua Top 5. E’ giusto che sia così: imparare a pensare a sé come vulnerabili e mortali diventa, quando non degenera in un percorso ossessivo, una modalità quasi protettiva che limita l’incursione nel territorio del rischio. E rende più improbabile uno dei tanti gesti che poi fanno notizia nella cronaca nera. Però per temere la morte in modo “sano” bisogna esservene stati educati. Bisogna aver avuto al proprio fianco adulti che hanno saputo parlarcene, che hanno saputo consolarci quando essa entrava in casa nostra. Invece, tra le tante onnipotenze di cui siamo dotati noi genitori del terzo millennio, una delle più intense e ahimè autolesive corrisponde al bisogno di dover proteggere chi sta crescendo dal dolore inevitabile che deriva da un lutto.
Se muore un gatto di famiglia, la consolazione arriva subito con un nuovo gatto che sostituisce quello scomparso. Così il bambino non soffre.
Ancor più grave: se muore un nonno, gli diciamo che è andato in vacanza e che per un bel pò non tornerà, così evita di soffrire per una cosa che non si può modificare.
Invece, di fronte alla morte bisogna soffrire. Ed è una sofferenza che fa male ma che va imparata.
Altrimenti la morte diventa solo una finzione proposta dai film oppure sfidata, cercata, accumulata e trasformata in punteggi dentro ad un videogioco. E alla fine sembra quasi che non esista più.
E allora, da adolescente, se la morte mi spaventa ma al tempo stesso ho imparato a far finta che non ci sia, la trasformo in sfida continua a tutto. E faccio un sacco di stupidaggini, alcune delle quali molto gravi. A volte addirittura irrimediabili.
Ecco perché, poi, come adulti siamo costretti a confrontarci con la morte degli adolescenti oppure con quella da loro causata. E a quel punto, la sofferenza che volevamo evitare nella loro vita e alla loro vita, si ripresenta amplificata, esagerata. Purtroppo, questa volta, non più evitabile.



L'ARTICOLO è TRATTO DALLA PAGINA FACEBOOK DI ALBERTO PELLAI PER CONCESSIONE DELL'AUTORE.
LA PAGINA LA TROVI AL LINK RIPORTATO IN BASSO:

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